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  • Pubblicazioni
  • Sabina Broetto e Silvano Monchi

  • 2016

  • Negorno Karbakh

Il Nagorno Karabakh è un piccolo fazzoletto di terra incastrato nelle montagne del Caucaso del sud.

Amato dagli armeni, conteso dall’Azerbaijan, dimenticato dal resto del mondo, questo Paese si dibatte tra la guerra e la pace da più di vent’anni.

Il Nagorno Karabakh ha un’area di 11.458 chilometri quadrati, pari a meno della metà di quella della Sardegna, e una popolazione di 143 mila abitanti, poco meno della metà degli abitanti di Cagliari. È diviso in sette regioni, più la capitale Stepanakert, a statuto speciale, dove vivono oltre 53 mila persone. La seconda città più grande è Shushi. “Karabakh” è una parola di origine turca e persiana che significa «giardino nero». «Nagorno» è una parola russa che significa «montagna». La popolazione di origine armena preferisce invece chiamare la regione «Artsakh», il nome antico armeno.

La sua storia è piuttosto complicata: Antica regione armena, Artsakh, ha subito nel corso dei secoli numerose invasioni e dominazioni, ma la sua popolazione è stata sempre in larghissima parte armena e cristiana.

Stalin decise nel 1921 di assegnare il territorio all’Azerbaijan, turcofono e musulmano. Stalin tradì gli armeni e per ingraziarsi la Turchia, dove voleva esportare il comunismo e che era alleata degli azeri, e creò l’Oblast (“regione amministrativa” in russo) Autonomo del Nagorno-Karabakh, che venne inglobato a sua volta nella Repubblica Socialista Sovietica Azera, contro la volontà della maggior parte degli abitanti che era armena e di fede cristiana (l’Azerbaijan è tradizionalmente di religione musulmana sciita).

Dopo la decisione di Stalin ci fu molta tensione tra il Nagorno-Karabakh e i governanti azeri. Alla fine degli anni Ottanta, quando la regione approfittò della disgregazione dell’Unione Sovietica per staccarsi definitivamente dall’Azerbaijan, le tensioni esplosero. Nel 1988 il Parlamento del Nagorno-Karabakh dichiarò la propria indipendenza, gli azeri si rivolsero all’Unione Sovietica per bloccare la secessione, ma da Mosca nessuno fece nulla.

Dopo un conflitto che lasciò sul campo migliaia di morti, oltre a centinaia di migliaia di profughi da entrambe le parti, nel maggio del 1994 l’Armenia (cristiana), l’Azerbaijan (musulmano) e la Repubblica del Nagorno Kabarakh sospesero le ostilità e firmarono l’accordo di Bishkek. Lasciandosi alle spalle sei anni di scontri e combattimenti per il controllo di questo territorio, ma la fine delle operazioni militari non portò mai al disarmo.

I due paesi sono ancora tecnicamente in guerra, ma alla fine il Nagorno-Karabakh, protetto dall’Armenia, ha ottenuto l’indipendenza de facto, anche se questa non è ancora riconosciuta dalla comunità internazionale. Da allora i tanti negoziati di pace tra i due paesi non sono andati a buon fine.

Il Nagorno-Karabakh è una pedina fondamentale sullo scacchiere geopolitico caucasico, dilaniato da rivendicazioni separatiste e vicino alla polveriera mediorientale. Sembra che anche dietro l’arresto del processo ufficiale di riconciliazione tra la Turchia e l’Armenia sul genocidio del 1915 ci siano state le pressioni dell’Azerbaijan. Principale esportatore di petrolio in Italia, il Paese non ha mai rinunciato a voler riprendere il controllo sul Nagorno-Karabakh. Dall’estate del 2014 c’è stata una ripresa degli scontri, anche sul confine armeno-azero. La tensione fra azeri e armeni è sempre molto elevataː le violazioni lungo la linea di contatto si susseguono a ritmo sempre più intenso e aumenta il calibro delle armi utilizzate.

Nel 2016, per la prima volta dall’interruzione ufficiale dei combattimenti, c’è stata la “Guerra dei Quattro giorni”. Un violento scontro sviluppatosi tra Azerbaijan e repubblica del Nagorno Karabakh tra il 2 e il 5 aprile 2016. La portata delle operazioni militari, le modalità e il numero di morti e feriti anche fra la popolazione civile assumono i connotati di vera e propria guerra il cui termine giunge con un accordo di cessate-il-fuoco mediato dalla Russia con l’appoggio degli Stati Uniti.

Ritenuto finora un “conflitto congelato”, quello del Nagorno-Karabakh è piuttosto un focolare mai veramente spento, pronto a riaccendersi nell’indifferenza della comunità internazionale.

Questo Paese ci ha catturato l’anima perché assolutamente sconosciuto e profondamente bisognoso di parola, o nel nostro caso di “IMMAGINE”…

È uno Stato stupendo, uno di quelli “veri”, deciso dai popoli e non dai governanti freddi e sordi, che ufficialmente non esiste per nessun governo al mondo, ma è uno di quelli dove la voglia di vivere è forte e con loro anche la nostra.

Non siamo andati sul confine a “speculare” immagini di guerra, ma siamo stati in mezzo alla gente comune, abbiamo respirato la vita di tutti i giorni e documentato la “normalità”, i giochi dei bambini, la vita delle donne e il lavoro degli uomini. Abbiamo ritratto giornate normali e gente normale, che vive sotto lo spettro della guerra continua.

Noi non stiamo nè con gli Armeni nè con gli Azeri, noi stiamo con la gente comune e la propria autodeterminazione a sentirsi un gruppo, una Nazione, fuori dai giochi di interese geopolitico, fuori da ogni violenza.

Sabina Broetto e Silvano Monchi